Torino misteriosa: il dolore tra i muri dell'Albergo dei due Pini
Chissà quante volte siamo passati davanti all’Albergo dei due Pini senza soffermarci un attimo per pensare alla sua storia e… alle sue storie.
Stiamo scrivendo del Regio Manicomio situato in via Carlo Ignazio Giulio (più comunemente chiamata solo via Giulio) al numero 22, via parallela a Corso Regina Margherita, nel tratto collocato tra Corso Valdocco e via della Consolata.
Il nome affibiatogli lo deve ai due pini (da poco tempo ne è rimasto uno solo) che facevano da sentinella al portone d’ingresso (nella foto datata aprile 2016 c'erano ancora).
La storia
La costruzione del Regio Manicomio avviene fra il 1828 e il 1836, con frequenti interruzioni per carenza di fondi, per l’inadeguatezza della precedente struttura (Ospedale dei Pazzerelli) e per lo svilupparsi di una nuova attenzione medica, sociale e politica nei confronti della questione del controllo dei comportamenti devianti. Il terreno su cui costruire il nuovo manicomio fu concesso dalla città di Torino (ordinato 30 aprile 1828): un largo quadrilatero di circa 6 giornate nei terreni a nord-ovest della Città, già occupati dalle fortificazioni, delimitato dalla via della Consolata, dalla via San Massimo (ora corso Regina Margherita), dalla via Valdocco e dalla via che scendeva alla piazzetta della Consolata.
Scriveva il Presidente del Regio Manicomio: “Il luogo non poteva essere meglio scelto per trovarsi il medesimo sufficientemente appartato dalla Città per non riuscire d'incomodo al vicinato, ben esposto e ventilato, con prospetto di campagna, abbondanza d’acqua e soprattutto ampiezza di abitazione e di sito coperto cotanto necessario per la classificazione e separazione delle principali malattie intellettuali, nonché per assicurare in quantunque tempo e stagione il passeggio dei ricoverati”.
Un fatto rilevante nell'ambito del dibattito allora in atto circa l'ubicazione delle nuove strutture, l'architettura manicomiale, l'ergoterapia come strumento di "ravvedimento", il miglioramento delle condizioni di vita dei folli "incurabili" (innocui o no), ecc.
L’edificio, progettato dall’architetto Giuseppe Talucchi (1782-1863), si caratterizza per la sua disposizione in lunghezza: il nucleo centrale, destinato a spazi di servizio, divideva due padiglioni simmetrici corrispondenti alla divisione per sesso dei ricoverati e poteva ospitare fino a 600 pazienti.
La dislocazione delle stanze rendeva possibile la separazione per tipo di disturbo e tra ospiti paganti e non e la distribuzione prevedeva locali destinati al lavoro dei reclusi. Però già dal 1854 molti “ospiti” furono spostati presso la Certosa di Collegno per l’inadeguatezza della struttura sia dal punto di vista della ricettività sia delle condizioni igienico sanitarie
Rispetto all’edificio originario, non esiste più l’imponente muro di recinzione ed è stata aggiunta, a metà Ottocento, la struttura semicircolare del lato sud, su progetto dell’architetto Barnaba Panizza (1806-1895).
Nell’estate del 1943 gli aerei della RAF lo colpirono con bombe di grosso e grossissimo calibro causando gravi danni alla copertura del tetto con crollo di volte, spaccatura degli infissi, crollo di muri interni e parziale distruzione del muro di cinta.
La struttura venne abbandonata nel 1973 e nel 1975 ebbe inizio la sua ristrutturazione.
Ora è sede dell’Anagrafe Centrale del Comune di Torino.
L’inserimento nei luoghi “negativi” di Torino trova una spiegazione nel fatto che questo è stato per anni un luogo dove era ben presente la sofferenza delle persone.
Poi in quel luogo venivano “internate alcune delle donne considerate “pazze” ma che invece risultavano solo “abbandonate” per estrometterle da vicende familiari, come ad esempio complicate divisioni ereditarie, dove medici accondiscendenti, dietro laute elargizioni, diagnosticavano un qualcosa di inesistente.
E chi veniva internato “non pazzo” in quel luogo, alla fine, lo diventava sul serio.
Anche se oggi è vissuto da un ufficio pubblico, si percepisce ancora la grande energia negativa che permea quei muri e quegli spazi, l’energia negativa sprigionata, appunto, dalla sofferenze delle persone internate. Mi è bastato, una decina di anni fa circa, fare un breve giro all’interno per sentire molto forte questa presenza negativa fatta dal dolore dei pazienti che per poco più di un secolo hanno vissuto questo luogo.
A pensare tutto ciò, ancora oggi, passandoci davanti, se si è consapevoli del suo passato, un piccolo brivido può percorre il corpo di chi transita.